di Ale Corrias – Riflettendo sull’importanza del movimento per la nostra vita  per la nostra crescita di esseri umani, ho ritrovato in alcune pagine di un autore a me particolarmente caro, Italo Calvino, quella che potrebbe essere letta come una metafora del Brain Gym®. Di seguito trovate alcuni passaggi estratti dall’articolo “I mille giardini”, scritto da Calvino mentre si trovava a Parigi e pubblicato insieme ad altri nel volume “Collezione di sabbia” (Garzanti, 1984).

“Un sentiero di lastre di pietra irregolari si snoda lungo tutta l’estensione della villa imperiale di Katsura. A differenza d’altri giardini di Kyoto fatti per la contemplazione immobile, qui l’armonia interiore si raggiunge seguendo passo a passo il sentiero e passando in rassegna le immagini che si presentano alla vista. Se altrove il sentiero è solo un mezzo e sono i luoghi a cui esso porta che parlano alla mente, qui è il percorso la ragione essenziale del giardino, il filo del suo discorso, la frase che dà significato a ogni sua parola.

… Le pietre che affiorano in mezzo al muschio sono piatte, staccate l’una dall’altra, disposte alla distanza giusta perché chi cammina se ne trovi sempre una sotto al piede a ogni passo; ed è proprio in quanto obbediscono alla misura dei passi, che le pietre comandano i movimenti dell’uomo in marcia, lo obbligano ad un’andatura calma e uniforme, ne guidano il cammino e le soste.

Ogni pietra corrisponde a un passo, e a ogni passo corrisponde un paesaggio studiato in tutti i dettagli, come un quadro; il giardino è stato predisposto in modo che di passo in passo lo sguardo incontri prospettive diverse, un’armonia diversa nelle distanze che separano il cespuglio, la lampada, l’acero, il ponte ricurvo, il ruscello. Lungo il percorso lo scenario cambia completamente molte volte, dal fogliame fitto alla radura cosparsa di rocce, dal laghetto con la cascata al laghetto d’acque morte; e ogni scenario, a sua volta, si scompone negli scorci che prendono forma appena ci si sposta: il giardino si moltiplica in innumerevoli giardini.

La mente umana possiede un misterioso dispositivo, capace di convincerci che quella pietra è sempre la stessa pietra, sebbene la sua immagine – per poco che spostiamo il nostro sguardo – cambi di forma, di dimensione, di colore, di contorni. Ogni singolo e limitato frammento dell’universo si sfalda in una molteplicità infinita: bassa girare intorno a questa bassa lampada di pietra ed essa si trasforma in una molteplicità di lampade di pietra; il poliedro traforato, maculato di licheni, si sdoppia e si quadruplica e sestuplica, diventa un oggetto completamente diverso a seconda del lato che si trova sotto il tuo sguardo, a seconda se t’avvicini o t’allontani.

Le metamorfosi che genera lo spazio si aggiungono a quelle generate dal tempo: il giardino – ognuno degli infiniti giardini – cambia col passare delle ore, delle stagioni, delle nuvole nel cielo. Gli imperatori che idearono Katsura predisposero piattaforme di canne di bambù per assistere in aprile alla fioritura dei fiori di pesco, o all’arrossarsi delle foglie degli aceri in novembre, costruirono quattro padiglioni da tè, uno per stagione, che s’affacciano ognuno su un paesaggio ideale in un momento dell’anno; ogni paesaggio ideale di una stagione ha un’ora del giorno o della notte che è il suo momento ideale. Ma le stagioni sono quattro e le ore ruotano tra mezzogiorno e mezzanotte: è un calendario di momenti esemplari, che si ripetono ciclicamente e che il giardino cerca di fissare in un certo numero di luoghi.

… Ecco cos’è il sentiero: un congegno per moltiplicare il giardino, certamente, ma anche per sottrarlo alla vertigine dell’infinito: le pietre lisce che compongono il sentiero della villa di Katsura sono in numero di 1716 … dunque 1716 punti di vista.

Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi. Perciò gli antichi maestri della cerimonia del tè che per poter giungere al padiglione dove il tè sarà servito, l’invitato percorra un sentiero, sosti su una panca, guardi gli alberi, attraversi un cancello, si lavi le mani in un bacile scavato in una roccia, segua il cammino tracciato dalle pietre lisce fino alla semplice capanna che è il padiglione del tè, alla sua porta bassa bassa, dove tutti si devono inchinare per entrare.

… L’arte del più grande maestro della cerimonia del tè, Sen-no Rikyu (1521-1591), sempre ispirata alla massima semplicità, s’espresse anche nel progettare giardini intorno alle case del tè e ai templi. Gli avvenimenti interiori si presentano alla coscienza attraverso movimenti fisici, gesti, percorsi, sensazioni inattese.

Un tempio vicino a Osaka aveva una vista meravigliosa sul mare. Rikyu fece piantare due siepi che nascondevano completamente il paesaggio, e vicino ad esse fece collocare una vaschetta di pietra. Solo quando un visitatore si chinava sulla vaschetta per prendere dell’acqua nel cavo delle mani, il suo sguardo incontrava lo spiraglio obliquo tra le due siepi, e gli si apriva la vista del mare sconfinato.

L’idea di Rikyu probabilmente era questa: chinandosi sulla vasca e vedendo la propria immagine rimpicciolita in quel limitato specchio d’acqua, l’uomo considerava la propria pochezza; poi, appena sollevava il viso per bere dalla mano, lo coglieva il bagliore dell’immensità marina e acquistava coscienza d’essere parte dell’universo infinito. Ma sono cose che a volerle spiegare troppo si sciupano: a chi lo interrogava sul perché della siepe, Rikyu si limitava a citare i versi del poeta Sogi:

Qui, un po’ d’acqua.
Laggiù tra gli alberi
il mare!”

Italo Calvino

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